San Biagio: problemi nuovi per un santuario antico
di Gianmichele Pavone
La Grotta di San Biagio è uno dei luoghi di culto più antichi del nostro territorio: scelto già dai primi abitanti preistorici per la posizione privilegiata sulla piana sottostante in cui pascolavano le mandrie (in loco è stato rinvenuto materiale neolitico), venne successivamente trasformato in santuario dagli eremiti e oblati, dediti attivamente alla penitenza e alla preghiera, i quali edificarono le strutture tuttora visibili a partire dal XII secolo (la prima chiesa è menzionata in una pergamena del 1148) e i religiosi ostunesi le utilizzarono fino al XIX secolo (nel 1833, infatti, Giovan Battista Lofino viveva ancora in quei luoghi come eremita).
Al di sotto della chiesa, secondo gli studiosi che l’hanno vista negli anni Trenta (Charles Diehl ed Alba Medea in particolare), pare esista una cripta, probabilmente affrescata, alla quale si poteva accedere per mezzo della botola esistente in chiesa a sinistra dell’ingresso, ma attualmente questo ambiente sotterraneo non è più praticabile, in quanto ostruito da macerie e resti di ossa umane.
La cavità inglobata nel santuario, invece, è stata studiata per la prima volta nella seconda metà dell’Ottocento dal medico poliedrico Cosimo De Giorgi (1842-1922) e da Giovanni Tarantini (1805-1889), sacerdote e archeologo, fondatore del museo civico di Brindisi, il quale così descriveva gli ambienti successivamente rimaneggiati:
«Pare che una metà della spelonca fosse stata impiegata per oratorio, essendovi stata dipinta in piccole proporzioni la natività di G. C. Della pittura non resta altro che i vertici delle teste della Madonna e di S. Giuseppe, sopra delle quali si veggono poche lettere della leggenda: Gloria in excelsis Deo: e restano pure le teste di due pastori con una parte della figura dell’Angelo che annunzia loro la nascita del Messia, ed una parte della leggenda: annuntio vobis gaudium magnum. Di ciachedun pastore resta pure la mano destra con cui fa velo agli occhi abbagliati dalla gran luce che rifulse all’apparir dell’Angelo. Questa parte di grotta pare che fosse stata destinata solo per recitarvi preghiere, ma non per celebrarvi anche la messa, si perché manca qualunque vestigio di altare, si perché lo spazio sarebbe stato troppo angusto per contenere il celebrante e quelli che avrebbero dovuto ascoltare la messa. Nell’altra metà della grotta si trovano due giacitoi, ed all’estremo si veggono gli avanzi di un camino che vi fu costruito. La coesistenza tanto del camino, quanto dei giacitoi maggiormente convince che nella stessa grotta non fu mai celebrata la messa. Il luogo dell’oratorio per la messa esser doveva trovarsi laggiù dove in tempi molto posteriori, distrutto l’antico oratorio, fu fabbricata l’attuale cappella di S. Biagio. Al di là del camino si trova anche un reclinatorio. Al di fuori sopra della grotta si vede scolpita la croce a grandi dimensioni. Impiegando molta attenzione ho avvertito pure alcune lettere cubitali che a stento si possono distinguere, perché mezzo cancellate e confuse fra le naturali fenditure della roccia. Le lettere hanno l’antica forma romana, e dicono: in Nomine Domini.
Nel 1999 la grotta è stata inserita nel Catasto delle Grotte e delle Cavità Artificiali della Regione Puglia con il numero PU371 a cura dello Speleo Club Cryptae Aliae e, successivamente, la planimetria è stata aggiornata dal Centro Speleologico dell’Alto Salento e dal Gruppo Gruppo Escursionistico Speleologico Ostunese.
Nei pressi della stradina che porta al santuario, peraltro, sono presenti anche altre due cavità di straordinaria importanza per la storia della città di Ostuni: la “Grotta del Tasso” (PU 370), frequentata sin dall’epoca preistorica, come dimostrato dalle numerose campagne di scavo condotte a partire dagli anni Cinquanta, e la Grave di San Biagio (PU 41), tra le più ampie del territorio pugliese (100 m di lunghezza e altrettanti di larghezza), esplorata per la prima volta nel 1949 e “riscoperta” nel 2018 dagli speleologi di GEOS, che anche in questo caso hanno aggiornato il rilievo.
Nonostante l’antichissima ed ininterrotta frequentazione e l’indiscussa devozione degli ostunesi verso il loro Santo Patrono, però, i proprietari e gli affittuari della Masseria Pizzicucco e dei terreni circostanti sin dal 1991 hanno più volte inibito ai visitatori il transito non solo attraverso la stradina vicinale che conduce alla chiesetta, ma perfino lungo i sentieri percorsi da epoca immemore dai pellegrini che risalivano a piedi la collina.
Il prof. Luigi Greco, pertanto, irritato per quanto stava accadendo, già negli anni Novanta aveva avuto modo di approfondire la questione e chiarì che dopo le leggi eversive della feudalità «il Santuario di S. Biagio è sempre stato comunale, cioè del popolo ostunese». Tanto poté dire, senza tema di smentita, attraverso i tanti documenti a disposizione e ricordiamo, a titolo esemplificativo, che: con una conclusione del Decurionato del 10 dicembre 1852, a seguito delle sollecitazioni dell’arcivescovo, l’amministrazione ostunese approvò la perizia dell’ing. Annibale Valle per il restauro dell’immobile; il 28 febbraio del 1853 un’altra conclusione cita espressamente i «lavori occorrenti alla cappella di S. Biagio di patronato di questo Comune»; il 7 agosto 1853 si legge ancora un rifermento alla perizia fatta fare l’anno prima all’ing. Valle per i restauri del Santuario; il 13 gennaio 1855 vennero approvati i lavori alla strada che conduce al santuario, precisandone il carattere “comunale” e l’utilità pubblica, situazione giuridica poi ribadita anche nella conclusione del decurionato del 22 gennaio 1857; il 17 luglio 1858, a proposito dell’intero complesso del santuario, il sindaco riferisce ai decurioni che «i fabbricati del Santuario di S. Biagio, appartenente a questo Comune, han bisogno delle riparazioni, ed io vedendone la necessità non ho mancato far redigere analoga perizia»; fino al 17 novembre del 1860 la voce “Chiesa di S. Biagio” è espressamente indicata dall’articolo 106 degli esiti ordinari del Comune di Ostuni, poi soppresso, perché si sarebbe potuto sopperire alla manutenzione con i mezzi fissati all’art. 102 (“manutenzione fondi comunali”); nel 1903 nuovi interventi impegnarono dall’amministrazione comunale del tempo per preservare il monumento dalla ricorrente minaccia del degrado, mentre tale Francesco Lenti, proprietario dei terreni circostanti (ma non della chiesa), si impegnò a contribuire ai restauri, e così via.
A fronte del contenzioso, l’Amministrazione Comunale incaricò il responsabile dell’Ufficio Patrimonio di fare accertamenti presso il Registro della Conservatoria Immobiliare di Lecce per reperire l’eventuale atto di vendita della chiesa, ma le indagini svolte dimostrarono l’inesistenza di atti relativi all’alienazione ed alla vendita della chiesa di S. Biagio a privati cittadini: secondo Greco dai vecchi catasti redatti nell’Ottocento emergeva che la proprietà del santuario e le relative pertinenze erano di esclusiva proprietà del Comune di Ostuni (a cui spettava il compito delle continue manutenzioni e della scelta del cappellano incaricato della custodia e delle celebrazioni) mentre soltanto a partire dall’impianto del nuovo catasto negli anni Settanta del secolo scorso si ritrovava la “strana situazione” in cui la famiglia Dell’Erba (residente a Castellana Grotte) risultava proprietaria della sola chiesa (contrassegnata con la lettera “A”, partita n. 5992) ed il Comune delle pertinenze comprendenti tutti gli ambienti esterni all’edificio sacro (foglio 83, particella 4, partita n. 2657).
Lo stesso storico, peraltro, consegnò all’Ufficio Patrimonio la copiosa documentazione raccolta, rallegrandosi dopo sei mesi di faticose ricerche del risultato che sperava di aver ottenuto: «la prova finale ed inconfutabile dei diritti di proprietà sul Santuario da parte del Comune» e l’intervento dell’Amministrazione comunale, la quale avrebbe dovuto ordinare al presunto proprietario di rimuovere ogni ostacolo che impediva il pieno godimento del possesso, come lo sbarramento della via di accesso.
In risposta alle puntuali indicazioni del prof. Greco, un parente-difensore del sig. Nicola Dell’Erba fece pubblicare sulle pagine di questo Mensile una lettera in cui si affermava – anche con toni inutilmente offensivi e minacciando denunce – che il suo assistito aveva ricevuto la chiesa da suo padre Diego, il quale a sua volta l’aveva ereditata dai suoi avi e che nel frattempo i diritti del Comune si erano estinti «per non uso».
La risposta composta e ironica di Greco non si fece attendere: fece notare l’assurdità della contestazione dei documenti storici (che chiunque avrebbe potuto consultare), la quale rappresentava anche un’offesa alla memoria del popolo ostunese, ed invitò la famiglia a collaborare alla pubblicazione di un libro sul santuario offrendo magari ulteriori spunti per concludere il lavoro nel migliore dei modi. Lo stesso compianto studioso, peraltro, si chiedeva quando e come il Comune avrebbe potuto alienare la proprietà della sola chiesa (e di nessun altro immobile adiacente) ad un privato, per ripristinare la verità storica o eventualmente condannare pubblicamente i responsabili, ma soprattutto per salvare il bene dal degrado al quale era stato condannato.
Nel frattempo, infatti, la Sovrintendenza si interessò finalmente al complesso architettonico, confermando che era «soggetto a vistosi quadri umidi a carattere ascendente e diffusi fenomeni di deterioramento fisico degli ambienti, favoriti dall’azione della flora spontanea», e chiese chiarimenti sulla proprietà dei luoghi in modo da inserire la proposta di restauro nei programmi ministeriali d’intervento.
Negli anni seguenti, tuttavia, nulla è cambiato e questa è un’amara constatazione: le amministrazioni che si sono succedute non hanno mai avviato azioni giudiziarie per la salvaguardia di un bene pubblico così importante. Nessuno ha mai impedito che la vicenda fosse gestita in base all’umore degli interlocutori pro tempore e mentre scriviamo la famiglia Dell’Erba oppone nuove restrizioni, peraltro potenzialmente definitive.
La novità di quest’anno, infatti, è che il 28 gennaio, i Vigili del Fuoco hanno effettuato un “sopralluogo a vista” (senza alcun approfondimento geologico né strumentale in genere), su richiesta del comando di Polizia Locale, al fine di valutare eventuali pericoli o crolli nell’area in vista del tradizionale pellegrinaggio al santuario (3 febbraio). All’esito, la squadra del distaccamento di Ostuni unitamente ad un funzionario della sede centrale non hanno rilevato in corrispondenza della chiesa evidenti elementi che possano far supporre una variazione dello stato dei luoghi rispetto al passato (anche se la presenza delle radici della vegetazione sovrastante potrebbe aver alterato lo stato fessurativo della parete rocciosa, ma questo va eventualmente accertato) mentre lungo il sentiero, a poche decine di metri dall’edificio, hanno segnalato una situazione di pericolo data dalla presenza di due massi di notevoli dimensioni (alti circa 8 metri) in equilibrio su una base ridotta e poggiati l’uno all’altro, ma rispetto ai quali non è possibile prevedere alcuno scenario in caso di rotolamento.
I Vigili del Fuoco, conseguentemente, in una “comunicazione” indirizzata alla Polizia Locale, alle proprietarie, al sindaco e alla Prefettura hanno ribadito l’importanza di effettuare verifiche più approfondite, con personale specializzato in campo geologico e con l’ausilio delle apparecchiature tecnologiche che il caso richiede, e in via precauzionale hanno chiesto che fosse segnalato il divieto di transito ed il potenziale pericolo rilevato.
Due giorni dopo la famiglia Dell’Erba, per il tramite del proprio difensore ha diffidato l’amministrazione comunale a non consentire e non autorizzare alcuna forma di accesso nella loro “proprietà privata”, specificamente in relazione all’imminente festa di San Biagio, declinando ogni responsabilità eventualmente derivante dalla situazione di pericolo segnalata.
La Commissione straordinaria insediatasi dopo lo scioglimento del Comune ha cercato invano di individuare una soluzione e da una nota diramata il 2 febbraio abbiamo appreso che nonostante il piano di sicurezza predisposto dall’Ente per consentire ai cittadini di esternare la propria fede nei confronti del Patrono in condizioni ottimali, anche in relazione alle misure dettate dalla pandemia in atto, i proprietari hanno mostrato ai Commissari “scarsa sensibilità”.
Se queste sono le premesse, possiamo aspettarci ora che qualcuno investa negli interventi di messa in sicurezza al fine di permettere ai pellegrini di tornare a frequentare quei luoghi santi? Dovrebbe farlo la stessa famiglia se insiste nell’affermare che si tratti di una “proprietà privata” o il comune di Ostuni al quale viene inibito l’accesso? Lascio ai lettori la risposta.
A beneficio dei prossimi e – si spera – più zelanti amministratori il sottoscritto può aggiungere che non solo non c’è alcuna traccia degli eventuali atti di compravendita che ironicamente cercava il prof. Greco, ma non esiste neppure una sentenza con la quale si sarebbero dovuti accertare per usucapione ipotetici diritti di proprietà.
Inoltre il “non uso” al quale faceva riferimento l’avvocato della famiglia poteva essere valorizzato in relazione ad una servitù di passaggio sui terreni effettivamente non esercitata per vent’anni, ma le visite al santuario non sono mai state interrotte. Vi è di più: la particella n. 4 del foglio 83, indiscutibilmente di proprietà del Comune di Ostuni, catastalmente è estesa 125 m2, superficie che inevitabilmente comprende anche la chiesa. Quest’ultima è qualificata in estratto di mappa con la lettera “A”, ma non rappresenta una proprietà distinta dalla predetta particella. Infatti nessuna chiesa e/o fabbricato diverso dalla Masseria Pizzicucco con le sue pertinenze risulta intestato alla famiglia Dell’Erba.
Oggi dunque appare doveroso che la Città, di concerto con la Diocesi di Brindisi-Ostuni che in quel santuario trova uno dei luoghi di espressione più autentica della religiosità popolare, adotti una decisione risolutiva nel rispetto dei cittadini: l’esproprio o l’accertamento del diritto di uso civico sulla strada vicinale che conduce al santuario, anche mediante l’esercizio del potere di tutela possessoria finalizzato all’ordinato ripristino dell’uso pubblico preesistente. Paradossalmente, se non esistesse già una strada vicinale usata da epoca immemore, la particella di proprietà del Comune risulterebbe addirittura “interclusa” e ciò legittimerebbe comunque un’azione giudiziaria. Tutto ciò, ovviamente, al netto del buonsenso che si spera possa portare i proprietari della collina a fare un passo indietro riconoscendo semplicemente lo status quo.
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